09 luglio 2015

Quello che resta, nove anni dopo

Una mezzaluna al prosciutto e formaggio non potrebbe e non dovrebbe avere lo stesso sapore di una madelaine proustiana, ma se ripenso al mondiale di Germania del 2006 il souvenir organolettico che mi torna alla mente è quello: una piadina secca, il prosciutto bruciacchiato, un formaggio edamer scadente scaldati sulla piastra di un bar universitario, la sensazione empia che bastasse così poco per essere sollevato o, se assumiamo per credibile l’asset emozionale dell’epoca, felice. Il 4 Luglio, il giorno della semifinale contro i padroni di casa, ho dato il primo esame del mio corso di laurea specialistica, era un esame di storia contemporanea e mi era sembrato profetico dovermi trovare a parlare di nazismo e fascismo, di Italia e di Germania, senza dover per forza alludere, senza stare a spiegare perché l’Italia, perché la Germania, proprio quel giorno (l’esame andò bene ma sul libretto mi trovai verbalizzato solo un idoneo, era tipo un modulo propedeutico, ed è buffo come a due lustri di distanza quel mondo rarefatto e le parole che ne puntellano l’essenza assumano le fattezze di un’Arcadia da rimpiangere). 
Ricordo che durante gli inni ero ancora impegnato a cuocere salsicce su un barbecue straniero, e cercavo di infilare a tutti i costi nel discorso certe teorie di Emilio Gentile sul culto della personalità, prima che me le dimenticassi per sempre.

I mondiali di Corea e Giappone li ho seguiti mentre facevo il servizio civile in una Misericordia. Guidavo ambulanze e inscenavo riedizioni delle partite, prima e dopo, su una Playstation scalcagnata con quattro colleghi: sceglievo sempre il Senegal di El Hadji Diouf. Il gol di Ahn l’ho accolto bestemmiando, con quella che era la mia fidanzata, davanti a un maxischermo installato sopra l’acquario di un centro commerciale: mi ci ero preso pure un giorno di congedo, per incazzarmi. Il Mondiale del 2010 in Sudafrica, invece, l’ho vissuto praticamente per intero distante da quella che era ancora la mia fidanzata: ero in tour promozionale del mio primo libro importante, nei ritagli di tempo ho iniziato a scrivere pezzulli calcistici che sarebbero finiti, in una maniera o nell’altra, nel mio primo libroimportante di pallone. Due settimane dopo la finale, a proposito di cos’è davvero importante, a quella ragazza ho chiesto se le sembrasse il caso di, che ne so, come te lo chiedo, sposarci. All’epoca pensai che l’avessi fatto anche un po’ per farmi perdonare dell’assenza reiterata. Quella passata ma soprattutto quella futura.
Alla fine della fiera la Coppa del Mondo del 2006 è l’unica che ho vissuto indossando il completino ufficiale del cliché, come andrebbe gustato un mondiale, in case attrezzate coi ventilatori, con le bottiglie di cocacola e le patatine e i caroselli e tutto quanto. Con l’afflato naif del Ventenne-Che-Studia. Anche se poi già lavoravo (ricordo le partite contro il Ghana e l’Ucraina proiettate nello schermo quindici pollici del televisorino che avevamo comprato all’uopo, con una colletta tra colleghi, per piazzarlo in un angolo recondito della reception dell’hotel).

Per la finale del 9 Luglio il Comune di Civitavecchia aveva previsto un maxischermo in Piazza Regina Margherita, la storica piazza del mercato. Al centro di quella piazza c’è una palma altissima: quando avevo tre anni una foglia staccatasi con un refolo di vento è caduta a trenta centimetri di distanza dal mio passeggino, io ho rischiato di morire e a mia madre era toccato ricoverarla in stato di shock. 
I ricordi puramente calcistici di quella serata si sono cristallizzati a posteriori, dell’hic et nunc ricordo solo degli odori: il profumo acre del sudore del tipo che mi stava a fianco quando Zidane ha portato i francesi in vantaggio e lui si è sbracciato in maniera plateale, con una smorfia di delusione da anime giapponese (il gruppo di ragazzi con i quali ho visto tutte le partite quell’anno, amici del fidanzato di un’amica della mia ragazza, mi sembrava un gruppo di gente a posto, davvero, solo un po’caratteriale: poi ho scoperto che avevano dato un nome alla comitiva, ci avrei discusso per motivi discretamente futili e ci avrebbero convocato per dirimere la questione con ilnucleo del gruppo riunito in assemblea plenaria. Italia-Francia, io, l’ho vista con una costola di Scientology); il sapore di menta piperita del bacio che ho dato alla mia donna dopo il gol di Materazzi (che ho solo intuito dal 
boato).

I caroselli, la goliardia degli sfottò, una maglia azzurra e tre sbreghi verdebiancherrossi sulla guancia sinistra erano solo il pretesto per sbracarsi un po’ di più: nell’euforia alcolemica dei festeggiamenti ricordo essersi fatta strada con lucidità la sensazione che il mondo fosse un posto molto bello in cui vivere, nonostante quella serata così prevedibile, pieno di gente interessante, amici a posto, ma che soprattutto quella vittoria me la fossi meritata un po’ anche per me, che ero stato furbo a incastrare i turni così da trovarmi fuori dalla reception per la finale. E che avevo la ragazza più bella del mondo al mio fianco.
Oggi, se ripenso a nove anni fa, è l’unica intuizione della quale non mi vergogno. L’unica, davvero. 


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